Amazzonia brasiliana / Davi Kopenawa Yanomami

Davi Kopenawa

Invasioni, epidemie, distruzioni. Davi Kopenawa, sciamano e voce internazionale del popolo yanomami, ha conosciuto e pagato sulla propria pelle l’incontro con l’uomo bianco. Con la forza della sua intelligenza è riuscito a non farsi fagocitare. Oggi è conosciuto in tutto il mondo e la causa indigena ha trovato in lui un rappresentante di grande spessore, rispettato e ascoltato. Lo abbiamo incontrato nella sede di Hutukara, a Boa Vista.

di Paolo Moiola

Boa Vista. La sede dell’associazione si trova in una via tranquilla. La si nota immediatamente perché sul muro di cinta della casa che la ospita è stato disegnato il suo logo multicolore. Il nome Hutukara rimanda al mito yanomami sull’origine del mondo, quando una parte della vecchia volta celeste cadde formando la terra attuale (Urihi).

Nella stanza d’entrata incrociamo un paio di persone che via radio stanno comunicando con qualche villaggio indigeno. Di lì a poco compare il padrone di casa. Capelli neri e lisci, volto tondo, una collanina nera al collo, indossa una maglietta bianca con inserti verdi e dei pantaloncini a scacchi, proprio come un bianco. Ma bianco non è, anche se ha spesso corso il rischio di diventarlo o di apparire tale agli occhi degli altri. Lui è Davi Kopenawa Yanomami, sciamano, presidente di Hutukara, ma anche noto portavoce internazionale del popolo yanomami. È arrivato nella capitale proveniente da Watoriki, il villaggio yanomami il cui nome significa «montagna del vento».

Davi non lesina sorrisi, in particolare all’amico Carlo Zacquini, un napë (non-Yanomami) conosciuto nel lontano 1977. Fratel Carlo ha portato con sé The Falling Sky. Words of a Yanomami Shaman, l’edizione inglese del libro autobiografico scritto da Davi assieme all’antropologo francese Bruce Albert. Glielo consegna per farsi fare una dedica. Davi si siede al tavolino e inizia a scrivere. Lo fa lentamente scandendo a voce alta ogni parola scritta in lingua yanomae sulla pagina bianca.

Nel frattempo i nostri programmi subiscono un imprevisto rallentamento. Si presenta un giornalista di San Paolo, che naturalmente ha fretta. Ci chiede di parlare per primo con Davi. «Soltanto pochi minuti», ci assicura. Ci facciamo da parte, pur sapendo di rischiare, con l’arrivo del tramonto, di fare foto e riprese senza la luce naturale (come infatti avverrà). Fratel Carlo ci fornisce immediatamente una lettura di quanto accaduto: «Oggi i bianchi lo cercano. Spesso lo adulano, o gli fanno proposte che per molti altri sarebbero allettanti. Per Davi non è facile».

Occupiamo il tempo a conversare con una delle persone intente a parlare via radio. Lucivaldo è tecnico d’infermeria e lavora al polo base di Demini, che serve anche Watoriki.

«È un lavoro – spiega Lucivaldo – che richiede molta disponibilità perché il territorio è di difficile accesso. Si lavora nella comunità per 30 giorni, lontani dalla propria famiglia. Poi si torna in città per 15 giorni». La comunità dove Lucivaldo lavora conta 190 indigeni, seguiti da un’équipe di 4 persone, un infermiere e 3 tecnici d’infermeria.

Dopo circa mezz’ora torna Davi, finalmente libero di conversare con noi. Ci sistemiamo all’aperto, in un cortiletto interno della casa.

«Il mio nome è…»

«Il mio nome è Davi Kopenawa Yanomami», la conversazione inizia così, con un nome che è già una storia e un programma.

Una storia. Detto che gli Yanomami non avrebbero nomi propri (ma soltanto nomignoli, peraltro da pronunciare in situazioni confidenziali), i nomi del nostro sono stati imposti dai bianchi. Il primo, Davi, è quello ricevuto nel 1958 dai missionari evangelici della New Tribes Mission, che avevano raggiunto il suo villaggio nativo vicino alle sorgenti del fiume Toototobi, non lontano dal confine con il Venezuela. Poi un funzionario della Funai aggiunse Xiriana, nome di una tribù diversa da quella d’appartenza. Soltanto anni dopo, Davi riuscì ad avere un nome scelto in prima persona: Kopenawa. Un nome che è un programma e una promessa: «kopena», in lingua yanomae, è un tipo di vespa. Davi spiega che nella foresta le vespe sono appese a rami e chiunque passi nelle loro vicinanze deve fare attenzione a non scomodarle o stuzzicarle, perché altrimenti diventano pericolose.

Nel corso della sua esistenza – dovrebbe essere nato nel 1956 – Davi è stato scomodato e stuzzicato molte volte: dai missionari evangelici, dagli invasori (garimpeiros, fazendeiros, madeireiros, coloni, operai ecc.), dai politici. Davanti alle molteplici aggressioni – fisiche e culturali – alla sua gente lui ha (quasi) sempre reagito con temperamento e intelligenza, costruendo la sua immagine di leader indigeno carismatico e affidabile.

Le prove affrontate in questi decenni sono state numerose e soprattutto sconvolgenti. A cominciare da quelle più personali come la morte della madre, avvenuta quando Davi era ancora un ragazzino. Lei morì in una delle prime epidemie (xawara) di morbillo, malattia portata dall’uomo bianco a cui l’organismo degli indigeni non poteva far fronte.

All’inizio degli anni Settanta arrivarono gli addetti alla costruzione della Perimetral Norte. Poi, tra il 1987 e il 1991, Roraima conobbe una corsa all’oro, che portò nelle terre indigene migliaia di garimpeiros (si parla di 40mila). Queste invasioni si tradussero in malattie, violenze, devastazioni. Nel 1992 finalmente arrivò un primo successo: il riconoscimento ufficiale della «Terra indigena yanomami», estesa circa 96 mila chilometri quadrati, più di un paese come il Portogallo.

 

Essere sciamano: fascino, ma anche scetticismo e ilarità

«Sono rappresentante del popolo yanomami dell’Amazonas e presidente dell’associazione Hutukara. E sono sciamano (xapuri)».

Agli occhi dei bianchi la figura dello sciamano o affascina o suscita scetticismo e ilarità.

Una definizione soddisfacente si trova in un bel libro di Survival International, organizzazione da anni molto vicina al leader yanomami. «Qualsiasi tentativo di definire o generalizzare lo sciamanesimo – si legge in Siamo tutti uno – sarebbe semplicistico perché le sue misteriose funzioni sono tanto diverse quanto complesse. Tuttavia, di solito gli sciamani sono uomini e donne specializzati nel comunicare con il mondo naturale e i suoi spiriti: persone che hanno un’elevata percezione del divino e dell’incorporeo. Si dice che possiedano poteri magici, che siano capaci di oltrepassare la linea di confine tra il regno umano e quello divino, di viaggiare nelle varie dimensioni per blandire e placare forze potenti, invisibili a tanti, ma evidenti ad alcuni. (…) Gli sciamani sono di volta in volta guaritori, sacerdoti, custodi dei riti sacri dei loro popoli, divinatori del tempo, cosmologi, interpreti dei sogni e depositari delle conoscenze botaniche. Guidati dagli spiriti e dalla saggezza degli antenati, sono sollecitati dal loro popolo a parlare ai morti, a cacciare gli spiriti maligni dagli ammalati, ad ammansire i venti e a recuperare le anime perdute degli infelici. Come guaritori si concentrano sulle interconnessioni tra individui, famiglia e comunità, e considerano la salute fisica inseparabile da quella mentale e spirituale. Attraverso sogni, stati alterati della coscienza e trance indotti anche con il supporto di piante allucinogene, tamburi e balli estatici, trascendono i limiti della fisicità e della coscienza umane per viaggiare attraverso il tempo e lo spazio. (…) Purtroppo coloni, missionari e governi, diffidenti e sprezzanti verso i poteri degli sciamani e la loro influenza all’interno delle tribù, li hanno perseguitati crudelmente»1.

Non sempre e non da tutti, per fortuna. La Missione Catrimani dei missionari della Consolata, fin dalla sua fondazione (nel 1965), ha cercato di avere con gli Yanomami un approccio diverso, di rispetto e ascolto. Anche e soprattutto nei confronti degli sciamani (xapuripë), figure centrali all’interno delle comunità yanomami. «Lo sciamano è l’intermediario – si legge in un libro fotografico curato dalla Missione – in grado di comunicare con il mondo di quegli spiriti ausiliari che garantiscono l’equilibrio della natura e la conservazione della vita»2.

Davi Kopenawa iniziò il proprio percorso sciamanico all’età di 27 anni, seguendo gli insegnamenti del padre della sua sposa, uno sciamano molto rispettato e conosciuto. Nella sua autobiografia racconta (con entusiasmo) della yãkoana, inalata durante i riti sciamanici attraverso le narici. Si tratta di un allucinogeno ricavato da un albero della foresta3. Serve per favorire l’incontro con gli spiriti ausiliari (xapiri).

«Sono diventato uno sciamano – racconta Davi – per essere in grado di guarire la mia gente». Argomento spinoso quello della salute. «Alcuni Yanomami – hanno scritto Damioli e Saffirio – fanno distinzione tra malattie tradizionali, contro le quali gli sciamani hanno potere, e malattie “non-Yanomami”, sconosciute a loro. Quando uno Yanomami soffre di una malattia “non-Yanomami” (scarlattina, meningite, tubercolosi, ecc.) sa che è meglio per lui prendere subito pillole e iniezioni e solo in seguito partecipare a una cura sciamanica»4.

Fratel Carlo ricorda ancora l’enorme frustrazione degli xapuripë davanti alle epidemie di morbillo, che in più occasioni fecero strage tra gli Yanomami.

Salute e natura

Davi lo ammette: «Il problema del mio popolo è la salute. Perché non riusciamo a migliorarla. Ci hanno abituati ai farmaci dei bianchi. Ma oggi nelle comunità non arrivano più medicine di qualità e questo è un problema».

Davi dice che la Sesai non invia medici e che troppe persone vanno nelle aldeias (comunità indigene) non perché interessate alla salute degli indigeni, ma per i soldi. Altri ancora non si muovono se non ci sono gli elicotteri a trasportarli.

Davi, in quanto sciamano, va però oltre la salute intesa nel senso dei bianchi. «Anche la natura – precisa – cura. Porta una energia buona. La sua forza è in grado di proteggere il mio popolo yanomami». E aggiunge: «Se non c’è inquinamento, distruzione dei fiumi e della foresta, se non ci sono garimpos».

Purtroppo non è così. I garimpeiros nella Terra yanomami sono molto diminuiti rispetto agli anni passati, ma altri ne rimangono. E soprattutto sono presenti i danni da loro prodotti, come l’inquinamento dei fiumi con il mercurio. O come le malattie sessualmente trasmesse. Davi racconta che molti garimpeiros arrivano nelle aldeias offrendo cibo e regali in cambio di favori sessuali. Così si è diffusa la gonorrea tra le donne yanomami.

Meno pericolosi sono invece i madeireiros (tagliaboschi). «Sono rimasti in pochi perché non ci sono più strade accessibili», precisa Davi. Ma le ferite inferte dalla deforestazione sono ancora visibili.

Con il termine «Urihi» gli Yanomami indicano la terra-foresta non soltanto nella sua dimensione fisica ma anche in quella metafisica. «La mia pelle – spiega Davi – ha il colore della Terra. Non mi divide da quel che mi circonda, bensì mi unisce ad esso. Non puoi sradicarci e portarci altrove; noi non esistiamo fuori da questa foresta. Noi le apparteniamo».

Tra indigeni e natura il rapporto è simbiotico. «L’ambiente della foresta tropicale – ha scritto Guglielmo Damioli – è per gli Yanomami spazio vitale, humus culturale, luogo sacro dei loro miti, cammino della loro storia. Gli Yanomami vivono in simbiosi con alberi, animali, fiumi, ruscelli, montagne e fenomeni atmosferici»5. Pertanto risulta inadeguato e riduttivo definire gli Yanomami (e gli indigeni in generale) «ambientalisti» nell’accezione che i bianchi danno al termine.

Dall’alto della propria esperienza fratel Carlo ci riassume la filosofia yanomami: «In questo universo, ogni entità – sia persona, vegetale, animale, minerale, sole, luna, stelle o altro ancora – ha funzioni e utilità diverse per l’esistenza. Per questo, l’interferenza brutale alla quale noi napëpë  sottoponiamo l’ecosistema, non potrà che danneggiare gravemente la vita».

Teosi e Satanasi

Nella sua autobiografia Davi Kopenawa racconta in dettaglio del periodo in cui gli evangelici di Nuove Tribù ripetevano in continuazione cosa Teosi (Dio) consente e cosa al contrario è opera di Satanasi (Satana): quasi nessuna delle consuetudini yanomami erano più lecite6.

Davi non nasconde il proprio risentimento verso di essi: «Ho conosciuto religiosi della Meva e di Nuove Tribù che mai dissero una parola contro i garimpeiros o contro la strada. Ci imbrogliavano dicendo che Dio è grande, che Dio ci protegge, ma non fecero nulla per noi».

Forse volendo marcare le differenze con gli evangelici, fratel Carlo interviene per chiedergli un’opinione sui missionari della Consolata. Pur non essendo prodigo di elogi, Davi ammette che si comportarono diversamente. «Mi piaceva dom Aldo Mongiano perché lottò con noi, perché fu coraggioso nel difendere la demarcazione della nostra terra».

In effetti, mons. Mongiano, vescovo di Roraima dal 1975 al 1996, al contrario delle chiese evangeliche, non esitò a schierarsi con gli indigeni. Durante il processo di riconoscimento delle terre yanomami, i garimpeiros manifestavano nella piazza davanti alla sua residenza. Giornali e radio locali lo attaccavano. «Un sicario, telefonando in diretta, si offrì di uccidermi e di mettere la mia testa sulla bateia, il piatto (per setacciare le sabbie aurifere) del monumento al garimpeiro. La telefonata fu ascoltata in tutta Roraima»7.

Una foto per i «napëpë»

È buio ormai. Ma una foto ricordo assieme è quasi un obbligo. Per noi napëpë. Andiamo all’entrata per metterci accanto al logo di Hutukara. Davi ne approfitta per spiegarci il significato di ogni elemento e ogni colore dipinti sul muro. Poi sono soltanto sorrisi.

Note al testo:

1 – Cfr. Joanna Eede (a cura di), Siamo tutti uno. Omaggio ai popoli della Terra, Edizioni Logos per Survival International, Modena 2010, pagg. 120-121.

2 – Cfr. Missione Catrimani (a cura di), Xapuripë Ithomaihe. Juntos para a descida dos xapuripë, Roraima 2011, pag. 9.

3 – La yãkoana è ricavata dalla corteccia dell’albero di Virola elongata, che contiene un alcaloide con potenti proprietà allucinogene.

4 – Cfr. Guglielmo Damioli – Giovanni Saffirio, Yanomami, indios dell’Amazzonia, Edizioni il Capitello, Torino 1996, pag. 37.

5 – Cfr. Guglielmo Damioli – Giovanni Saffirio, opera citata, pag. 170.

6 – Cfr. Davi Kopenawa – Bruce Albert, The Falling Sky. Words of a Yanomami Shaman, Harvard University Press, Cambridge-Londra 2013, pag. 188.

7 – Cfr. Aldo Mongiano, Roraima: tra profezia e martirio, Edizioni Missioni Consolata, Torino 2010, pag. 99.

Pubblicazione: rivista «Missioni Consolata», novembre 2014; revista «Além-mar», dezembro 2015.

Aggiornamenti: una successiva intervista con Davi Kopenawa è reperibile su questo stesso sito.

Libro: a Davi Kopenawa è dedicato un intero capitolo di «Nohimayu», libro di Corrado Dalmonego e Paolo Moiola uscito a settembre 2019 e visibile nella sezione Libri di questo sito.