Le più drammatiche elezioni della storia recente degli Stati Uniti si sono chiuse con la vittoria (sofferta) del candidato dei democratici, Joe Biden. Il presidente Trump non ha accettato la sconfitta ed è pronto a una guerra legale dalle conseguenze imprevedibili. Biden e Kamala, la sua vice, avranno comunque un mandato difficile, visto che il trumpismo rimane vivo e vegeto in una parte consistente del paese.

di Paolo Moiola

Un lungo sospiro di sollievo. Questo terribile 2020 ci ha risparmiato una seconda presidenza di Donald Trump. In tanti, negli Stati Uniti e nel mondo, hanno temuto che il miliardario bugiardo e megalomane potesse spuntarla di nuovo. Per fortuna, non è andata così, anche se è stata molto più dura del previsto visto che i sondaggi elettorali sono stati smentiti dai risultati reali. Non è stata invece smentita la vera natura del presidente in carica che, in pieno spoglio delle schede, il 4 novembre ha scritto su Twitter: «Stanno tentando di RUBARCI le elezioni». Pubblicato proprio così, con lettere maiuscole. Via via che i risultati si mostravano favorevoli allo sfidante Joe Biden, il presidente faceva carta straccia delle istituzioni e delle regole democratiche del paese, il vero grande sconfitto di queste elezioni ha commentato Thomas Friedman sul New York Times. L’escalation presidenziale è proseguita senza soste. Il 5 novembre Trump ha twittato: «STOP THE COUNT!», pretendendo di non conteggiare i voti espressi per posta da milioni di cittadini. Nella stessa giornata c’è stata la sua seconda conferenza stampa alla Casa Bianca: sono stati 16 minuti di monologo con un tale delirio di accuse (senza alcuna prova) che le principali televisioni Usa sono intervenute per tagliare e/o precisare che le sue affermazioni erano false. Senza però riuscire a fermare il presidente uscente che il 7 novembre ha scritto: «I WON THIS ELECTION, BY A LOT!» (Ho vinto queste elezioni, di molto!).

Joe Biden, il moderato

Dando per certo che Trump percorrerà ogni strada per contestare il risultato (spalleggiato dal suo consigliere legale Rudy Giuliani e, più in piccolo, da Matteo Salvini, the Trump’s Italian cheerleader), è ora di concentrarsi su Joe Biden, il 46.mo presidente degli Stati Uniti, il più votato nella storia del paese (oltre 74,5 milioni di voti, 4 più di Trump, al 7 novembre). In primis, è vero che anche molti democratici lo avevano considerato prima un candidato da sacrificare sull’altare del presidente in carica e successivamente – dopo l’arrivo dell’uragano Covid che ha rovesciato il tavolo politico ed elettorale – un ripiego per assenza di alternative percorribili. Di certo, Biden non è un personaggio alla Obama o alla Trump. Di fede cattolica («I’m a practicing Catholic»), è un politico moderato. Con due vantaggi dalla sua: ha esperienza politica e ha conosciuto le durezze della vita.

Il suo percorso politico parte da lontano. Nel 1972, a soli 29 anni, viene eletto senatore, il quinto più giovane della storia statunitense. Sarà sempre rieletto. Nel 2008, Barack Obama lo sceglie come suo vice presidente, incarico che occuperà per entrambi i mandati.

Il secondo vantaggio andrebbe scritto tra virgolette perché è di quelli che non si vorrebbero mai avere. Biden è stato infatti colpito più volte nei suoi affetti familiari. Nel 1972, a neppure trent’anni, un incidente stradale gli porta via la moglie Neilla e la figlia più piccola Naomi, lasciandolo solo con gli altri due figli. Nel 2015, il figlio maggiore Beau muore a causa di un tumore cerebrale. Esperienze che lasciano il segno, che aiutano a capire meglio la fragilità dell’esistenza.

Un altro punto di forza del neopresidente potrebbe diventare la sua vice, la senatrice californiana Kamala Harris (1964). Sarà la prima donna a ricoprire la carica di vicepresidente degli Stati Uniti. In precedenza, ci avevano provato soltanto Geraldine Ferraro (per i democratici) e Sarah Palin (per i repubblicani). Entrambe senza successo. Oltre a essere donna, Kamala Harris è nera (per parte di padre, giamaicano) e asiatica (per parte di madre, indiana). Insomma, una californiana con un retroterra africano e asiatico, testimonianza vivente dell’America multietnica.

Biden e il trumpismo

Cosa succederà con Joe Biden presidente? Il suo primo discorso da presidente è stato ecumenico, come si conviene. Le previsioni dicono che cambierà molto internamente agli Stati Uniti, meno a livello internazionale ma su questioni fondamentali (per esempio, l’emergenza climatica, partendo dal fatto che, dallo scorso 4 novembre, gli Stati Uniti sono fuori dall’accordo di Parigi). Si tratta però di previsioni ottimistiche. Per varie ragioni. La prima riguarda la suddivisione del Congresso: la Camera è rimasta ai democratici, ma il Senato potrebbe essere ancora dei repubblicani (mentre scriviamo sono 48 seggi a testa). Come in mano a questi (sei contro tre) è la Corte suprema, probabilmente la più importante istituzione del paese visto che decide su temi essenziali e non ha scadenza predeterminata, essendo i suoi membri eletti a vita.

Insomma, se alla Casa Bianca ci sarà Biden (dal 20 gennaio 2021, data dell’insediamento ufficiale), Trump non è scomparso e soprattutto c’è e ci sarà il trumpismo. «L’ideologia, la politica e lo stile di vita propri dell’imprenditore Donald Trump, eletto presidente degli Stati Uniti nel 2016», recita il dizionario Treccani, che subito dopo precisa, pur indirettamente, le sue caratteristiche salienti: razzismo, misoginia, fanatismo, xenofobia, volgarità, minacce e violenza. E andrebbero aggiunti complottismo (si è visto in queste elezioni), antiscientismo («Fauci fired!», licenziato, gridavano i fans del presidente durante i suoi comizi) e inattendibilità (a tal punto che il Washington Post ha costruito un gigantesco database delle bugie di Trump, parlando di uno «tsunami di falsità»).

Dall’economia al clima

È in questo quadro complicato che dovrà muoversi Joe Biden, 78 anni il prossimo 20 novembre. Proviamo allora ad accennare, pur se in poche righe, al programma di massima del nuovo presidente, cominciando dall’economia (sulla quale – mai dimenticarlo – pesano però le incognite legate alla pandemia da Covid-19).

L’economia trumpiana, esaltata dalla destra (sia tradizionale che populista) e da molti commentatori (anche in Italia), è fondata su un assunto base: meno tasse (tax cut) e soprattutto meno tasse ai ricchi. È vero che, prima dell’esplosione della pandemia, i dati economici del paese erano buoni, ma non come sostiene Trump. In primis, il trend positivo era già iniziato sotto la seconda presidenza Obama (2013-2016). In secondo luogo, vanno precisati i numeri reali e soprattutto i costi di quei risultati economici, a iniziare dal deterioramento delle relazioni con i partner commerciali. Questo è a tal punto vero che, a fine ottobre, oltre mille economisti statunitensi (professori universitari e premi Nobel) hanno firmato un appello per consigliare fortemente (strongly) di non rivotare Trump. Obiettivo prioritario del nuovo presidente è di chiudere con le politiche economiche che premiano la ricchezza rispetto al lavoro e le aziende rispetto alle famiglie lavoratrici.

Altro tema interno da sempre molto sentito è quello sanitario. Oltre ad affrontare seriamente la grave emergenza del Covid-19, Biden si propone di difendere la legge per una salute accessibile (Patient Protection and Affordable Care Act, nota come Obamacare) che Trump ha sempre cercato di affossare (e sulla quale dovrà esprimersi anche la Corte suprema). Difenderla, dunque, e possibilmente migliorarla, riducendo al minimo il numero degli statunitensi non-assicurati e ponendo limiti all’intollerabile discrezionalità delle compagnie assicurative.

A livello internazionale, il cambiamento più importante – ne abbiamo accennato poc’anzi – dovrebbe essere l’abbandono del negazionismo climatico, che ha caratterizzato l’amministrazione Trump. Il neopresidente è infatti convinto che non esista minaccia più grave e che gli Stati Uniti dovrebbero proporsi come leader mondiali nell’affrontare l’emergenza del riscaldamento globale, anche alla luce del fatto che ambiente ed economia sono intimamente connessi.

Il New York Times, sempre in prima linea nel contrastare una seconda presidenza Trump, aveva aperto l’editoriale del 2 novembre con una frase del 1968 di Martin Luther King: «Solo quando è abbastanza buio, puoi vedere le stelle» (Only when it is dark enough, can you see the stars). Non si sa quando gli Stati Uniti e il mondo rivedranno le stelle. Di certo, oggi c’è più luce in fondo al tunnel.

Paolo Moiola

Pubblicazione / data:

«l’Adige» (9 novembre 2020) e l’«Alto Adige» (9 novembre 2020).
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